In tempi di unanime consenso e straordinario successo di Drusilla Foer, elegantissima, anzi eleganzissima, raffinata e colta signora fiorentina, forse il momento è maturo per affrontare un tema spinoso e alquanto divisivo che affligge Roma: il diffuso e maltrattante cattivo gusto dei suoi abitanti.
Scorrendo, leggendo, curiosando tra le pagine social, si trova una notevole quantità di gruppi che parlano di Roma, dei suoi problemi: degrado, malamovida, sporcizia, cittadini contro i ristoratori del tavolino selvaggio, contro la mala amministrazione, contro tutti come in un B movie, traffico, auto parcheggiate male ecc., insomma denunce di inefficienze e inciviltà che tutti conosciamo.
Eppure una cosa viene quotidianamente ignorata. Il cattivo, direi pessimo, gusto che democraticamente attraversa molte categorie che vivono, investono, interagiscono sul territorio. Intendiamoci non sono una snob come Drusilla, ma la quantità di brutture e sciatterie che si vedono a Roma è davvero raro trovarle altrove. Nei quartieri bene come in quelli popolari. Come se ci fosse un’insana propensione a una baraccopoli “dentro di noi”, che è stata a lungo una cifra connotativa e anche poetica della città, ma che speravamo fosse legata a povertà e immigrazione del dopoguerra e che invece resiste e non ci abbandona. Una delle città più belle al mondo dominata da un’anima plebea che resiste pervicacemente a soluzioni estetiche professionali e valorizzanti, per cedere all’arronzato, all’accrocco deturpante. Tanto per far un esempio, l’esatto contrario di Parigi che invece è una città elegante, curata nei particolari, dove dal chioschetto di fiori alle bancarelle di libri, nulla è lasciato al caso e risponde a precise regole estetiche. Consapevoli che la forma è sostanza.
Tralascio tutto l’autocostruito abusivo che domina larga parte delle periferie romane, una specie di lego del provvisorio che diventa definitivo, superfetazioni assurde prive di senso abitativo e urbanistico. Torno invece su alcune vere e proprie baraccopoli inespugnabili nel cuore della città. Porta Portese, una favela della vendita di accessori auto e moto alle spalle di Trastevere. Borghetto Flaminio altra favela a pochi metri da Piazza del Popolo. Camposanpiero, incoerente zona artigianale a Tor di Quinto, sviluppatasi alla come viene. Via dei Lucani nel cuore di San Lorenzo, rifugio pericolosissimo di umanità alla deriva.
Ma non solo. C’è un diffusissimo cattivo gusto in molte altre cose piccole cose che sommate le une alle altre danno di Roma un’immagine di poraccitudine che non merita. Le terrazze di bar e ristoranti sorte come funghi a seguito del covid, per esempio. Tutto un fiorire illogico di pedane composte di qualsiasi materiale, rivestite di prati finti, decorate con lucette intermittenti, piante rampicanti di plastica, tendoni che ricordano le terapie intensive, accrocchi perimetrali fatti con materiali presi in discarica per delimitare e tenere in piedi le strutture.
Quasi tutte le palazzine romane costruite intorno agli anni 60 hanno le facciate deturpate da orribili vetrate con infissi in alluminio per chiudere balconi e terrazzini. Quasi tutte abusive. Chissà perché, mi chiedo, uno compra un appartamento con uno spazio esterno ma poi gli viene l’istinto di chiuderlo. E non c’è nessuno che glielo possa o voglia impedire. E invece buon senso vorrebbe che le cose che sono visibili dalla strada abbiano un’omogeneità e rispondano a determinati criteri di immagine pubblica.
L’ultima moda del “fai da te” è piantare la qualsiasi in giardinetti, aiuole sconnesse e buche di ex alberi. Capisco l’intenzione di riconvertire spazi ridotti a latrine o mini discariche. Ma creare giardini giapponesi, con pietre e bonsai, piante esotiche o qualsiasi cosa venga in mente, senza un progetto e una coerenza con il paesaggio, risulta una toppa peggio del buco. L’elenco potrebbe continuare all’infinito: muri disegnati da pseudo artisti, bancarelle stracciarole, insegne esagerate, pupazzi, cuori, e altre amenità piazzate da alcuni commercianti sullo spazio pubblico per attrarre clienti specie durante le feste più commerciali.
Mi chiedo. Lo stato spende centinaia di migliaia di euro per formare architetti, paesaggisti, designer proprio per far sì che lo spazio pubblico e non solo quello privato abbia una sua bellezza e funzionalità coerente, pensata e progettata. Cosciente che non tutti hanno le capacità necessarie per farlo E usiamoli! Paghiamoli! Basterebbe che la pubblica amministrazione desse qualche direttiva stringente su quello che si può o non si può fare e le facesse rispettare. Forme, colori, linguaggi non sono una pura formalità. Sono sostanza. La classe non è acqua e questo Drusilla lo sa bene, per questo riscuote tanto successo.

